A partire dalle macerie della seconda guerra mondiale e dalla distruzione dell’Europa che ne era derivata si affermò l’idea della necessità di costituire un’organizzazione europea volta a favorire l’integrazione e a prevenire la guerra; emersero inoltre nel panorama internazionale i diritti umani e la necessità che questi venissero rispettati e tutelati dagli Stati. Così un nucleo originario di Stati quali Belgio, Danimarca, Irlanda, Francia, Lussemburgo, Italia, Norvegia, Svezia e Regno Unito costituirono il Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale regionale, con sede a Strasburgo il cui Statuto venne approvato a Londra il 5 maggio 1949 ed il cui scopo venne definito nell’art. 1 del Trattato:”attuare un’unione più stretta fra gli Stati membri per tutelare e promuovere gli ideali e i principi che sono loro comune patrimonio e favorire il loro progresso economico sociale”. Con il deposito del settimo strumento di ratifica, lo Statuto entrò in vigore il 3 agosto 1943. Con legge del 23 luglio 1943, n. 433 l’Italia ratificò e rese esecutivo il Trattato. Il Consiglio d’Europa assunse come primo impegno quello di negoziare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, aperta alla firma a Roma il 4 novembre 1950, entrò in vigore il 3 settembre 1953 e venne poi ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848. Oggi il Consiglio d’Europa conta quarantasette paesi—rappresentanti la c.d. Grande Europa— tutti aderenti alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Di questi quarantasette paesi ventisette appartengono anche all’Unione europea. La Convenzione pur avendo come modello la Dichiarazione universale dell’uomo del 1948 delle Nazioni Unite è improntata all’effettività dei diritti in essa contemplati e in ciò riserva la propria forza: le violazioni denunciate dai singoli individui o dagli Stati Alte Parti contraenti, trovano un autorità giurisdizionale ad hoc, costituita in virtù della Convenzione, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, chiamata ad accertare nei confronti degli Stati Alte Parti contraenti la violazione dei diritti convenzionali.
I ricorsi esperibili dinanzi alla Corte per violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono riconducibili a due tipologie: i ricorsi interstatali (art. 33 CEDU), vale a dire i ricorsi proposti da uno Stato parte contraente nei confronti di un altro Stato parte contraente; i ricorsi individuali (art. 34 CEDU), vale a dire proposti da un soggetto privato nei confronti di uno Stato parte contraente. Per entrambi, il minimo comune denominatore è individuato nell’oggetto del ricorso: la violazione da parte dello Stato convenuto di uno o più diritti dell’uomo o libertà fondamentali dalla Convenzione. Nel panorama del diritto internazionale, l’introduzione di un ricorso individuale segna così una storica eccezione posto che, in tale settore, l’individuo ab originem è privo di quella soggettività che invece la Convenzione gli riconosce sulla base di un accordo.
Affiora veementemente il punto di forza della Convenzione, quello di permettere al singolo individuo di portare in giudizio davanti alla Corte di Strasburgo quello Stato che egli ritenga di avere violato i diritti umani e le libertà fondamentali contemplati dalla Convenzione e dai suoi protocolli tra cui: il diritto alla vita, il divieto di trattamenti inumani e degradanti, il divieto di schiavitù e del lavoro forzato, il diritto all’equo processo, il nullum crimen sine lege, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, la libertà di espressione, la libertà di riunione e di associazione, il diritto al matrimonio, il diritto ad un ricorso effettivo, il divieto di discriminazione, la protezione della proprietà, la libertà di circolazione, il divieto di espulsione, il diritto di risarcimento in caso di errore giudiziario, il diritto di non essere giudicato o punito due volte.